CURIOSITÀ ANNO 2002 – L’ASSO DEI LAKERS KOBE BRYANT: “IL MIO IDOLO IN ITALIA ERA ALESSANDRO FANTOZZI”

“Ho iniziato a giocare e imparato tante cose: da voi potrei anche tornare a vivere. Chi mi ricordo del basket? Fantozzi” “Sono legato a Reggio Emilia. Non ho più fatto 63 punti come lì a 10 anni” Parla ancora la nostra lingua e tiene al Milan. E Promette: “Sarò ad Atene 2006”.
LA STORIA / Uno dei più grandi cestisti del mondo ha passato la sua infanzia nel nostro paese Bryant, l’italiano dei Lakers “Ho iniziato a giocare e imparato tante cose: da voi potrei tornare a vivere. Chi mi ricordo del basket? Fantozzi” “Sono legato a Reggio Emilia. Non ho più fatto 63 punti come lì a 10 annii”. Parla ancora la nostra lingua, tiene al Milan. E promette: “Sarò ad Atene 2006”. Una volta Shaq si chiamava Marco Morani e Phil Jackson era Mauro Cantarella, allenatore del gruppo propaganda delle Cantine Riunite. Il piccolo Kobe aveva un anno in meno, ma poteva giocare con i più grandi grazie a uno splendido tiro consapevole che il suo big man e un altro suo compagno di squadra americano, Christopher Ward, fossero più bravi di lui e quindi meritevoli di ricevere i suoi passaggi. La stagione sfortunatamente non si trasformò in threepeat: le Riunite vinsero il campionato provinciale ma persero in semifinale con la Virtus Bologna. Dieci anni dopo, quando Morani era tornato Shaq e coach Cantarella s’era trasformato nel Master Zen Jackson, Kobe Bryant ha vinto il suo primo titolo Nba con i Los Angeles Lakers. Ma l’Italia è rimasta nel suo cuore: sette stagioni vissute in giro per la penisola, con papà Jellybean, mamma e le sorelle, a scuola, sui campetti, con gli amici e, ovviamente, parlando soltanto italiano. Lo hanno visto tutti i tifosi d’Italia, senza immaginare chi fosse e cosa sarebbe potuto diventare, quando prima e durante l’intervallo delle partite del padre, andava su e giù per il campo a tirare. All’inizio piccolissimo, poi sempre più grande e bravo. Kobe Bryant parla ancora italiano. E’ arrugginito, non si ricorda certe parole, ma se stesse un mese da noi ricomincerebbe a utilizzarlo fluentemente. “A Los Angeles nessuno lo sa – racconta – mio padre lo mastica poco. Dovrei parlarlo con le mie sorelle ma loro ormai hanno la loro vita e io la mia”. Quando era tornato negli Stati Uniti, la sua lontananza per 7 anni dagli Usa gli aveva provocato qualche problema (la sua pronuncia americana era un pò strana) avvolgendolo, però, in un manto di originalità e mistero. Poteva dire di tenere la Divina Commedia sul comodino, usare parole e concetti inusuali. Certo non aveva la testa di un tredicenne nato negli Stati Uniti. “L’Italia è il posto dove ho iniziato a giocare e ho imparato tante cose – raccontava nella nostra lingua in un incontro durante le finali Nba – sono contento che gli italiani mi seguino con affetto, continuate a farlo. Ho fatto parte di tutte le squadrette giovanili delle società nella quali mio padre giocava, ho iniziato a 6 anni a Rieti. Ha 10 anni, una volta, ho realizzato 63 punti che resta il massimo che sia mai riuscito a fare in una sola partita a qualsiasi livello. Quella che ricordo più di tutti, perché è stata l’ultima ed ero già grande, e stata Reggi Emilia. E dove ci sono le persone a cui sono più legato. Quando vengo in Italia cerco di salutarle”. Su Kobe ci sono state leggende che abbiamo contribuito a divulgare, sbagliando. Una è quella del suo numero di maglia, l’ 8. Spesso è stata venduta come un tributo dei suoi anni in Italia a Mike D’Antoni: “Mi spiace per Mike, ma lui non c’entra. All’high school avevo il numero 33 che ai Lakers era quello ritirato di Jabbar. Ma a un importante camp estivo, quando ero al liceo, mi diedero il 143. Ho fatto la somma ed è venuto fuori l’ 8. Piuttosto il mio idolo in Italia era Alessandro Fantozzi“. Bryant non sa che Sandro è ancora un mito ultraquarantenne di Capo d’Orlando: “E’ come John Stockton…”. I ricordi esagerano. Ci dà anche due notizie. La prima: “Finora non ho mai partecipato a Mondiali o Olimpiadi, le stagioni sono lunge, bisogna selezionare gli impegni e, d’estate, riposare e migliorare. Ma ad Atene, nel 2004, ci sarò”. La seconda: “L’Italia è sempre nel mio cuore e sono felice ogni volta che posso tornarci. Potrei anche decidere di venire a vivere lì e non è escluso che possa finire la carriera da voi, non so a quanti anni, se 30, 35 o 40”. Intanto di italiana c’è la sua Ferrari nera che usa come una smart per andare agli allenamenti a El Segundo e che parcheggia al fianco del camioncino di Shaq. Le finali 2002 rappresentano l’entrata nella maturità. A soli 23 anni, Kobe è riuscito a sfruttare tutto l’incredibile talento mettendolo, però, totalmente al servizio dei Lakers. Cosa che, contro i Nets, ha significato fondamentalmente che O’Neal fosse l’opzione principale per ricoprire mirabilmente la parte del numero due, anche se a 26 punti di media e con una presenza fondamentale nei finali di partita. E’ stato il passo più difficile della sua carriera. “Ho capito il mio ruolo perfettamente – dice -. Abbiamo compiuto un lungo viaggio per arrivare qui, con molti alti e bassi, ma tutti abbiamo compreso chiaramente quale fosse il nostro posto in questa squadra e da quel momento è andato tutto liscio”. Adesso dice cose sorprendenti fino a pochi mesi fa, quando i Lakers erano dilaniati dalla sua lotta con Shaq: “Nessuno al mondo domina il gioco come Shaquille e fino a quando sarà in campo, l’attacco deve svilupparsi passando attraverso lui. Perché è lì e per il solo fatto che gioca, ho maggiori opportunità di essere libero nelle occasioni che nessun altro giocatore della Nba può avere”. Un Bryant così, prima di oggi lo aveva visto soltanto coach Cantarella, stracitato dalle telecronache di Telepiù e intervistato da Fox Sports e Espn come mentore di Kobe ai tempi di Reggio Emilia. Quando Kobe passava a Morani, ora commerciante, e a Ward, che per laurearsi in ingegneria. E sognava Fantozzi e facendo il tifo per il Milan. Poi è diventato come Mike.

Fonte: Gazzetta dello Sport 19/06/2002 – tratto da www.ilbasketlivornese.it

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